lunedì 10 gennaio 2011

Salvatore Settis: «Così l’Italia ha devastato il suo paesaggio»

Salvatore Settis: «Così l’Italia ha devastato il suo paesaggio»
Sergio Buonadonna
Il Piccolo 17/12/2010

“Nella classifica della vergogna il primato va alla Liguria, il Friuli Venezia Giulia non è tra le regioni peggiori»

Pagare meno tasse è il sogno di tutti gli italiani, ma non pagarle o pagarle meno produce danni devastanti. Esempio: per favorire gli investimenti industriali nel 2001 Tremonti detassò il reddito d'impresa. L'Italia si riempì di capannoni industriali e il Veneto ne esagerò, specialmente nelle province di Treviso, Padova, Vicenza e Venezia il cui paesaggio sfigurato oggi è costellato di capannoni vuoti. E l'esempio più eclatante del recentissimo libro di Salvatore Settis "Paesaggio Costituzione Cemento" (Einaudi, pagg. 326, euro 19) radiografia dell'Italia deturpata che si propone come strumento di "battaglia per l'ambiente contro il degrado civile". Salvatore Settis è nel campo non solo studioso tra i più autorevoli, ma anche alfiere di un'ultima, residua possibilità di salvezza. L'ambiente e la difesa del paesaggio sono al centro della sua nutritissima attività scientifica: storico dell'arte, archeologo, direttore del Getty Research Institute di Los Angeles, poi della Normale di Pisa e titolare della Càtedra del Prado a Madrid. Settis, perché il paesaggio è il grande malato d'Italia?
«Perché è stato devastato pienamente. Malgrado una normativa fra le migliori del mondo molto capillare e ricca, lo abbiamo trascurato sicché si assiste alla continua cementificazione del suolo con lo straordinario paradosso che l'Italia è il Paese europeo col più basso tasso di natalità ed il più alto tasso di consumo del suolo».
Questo è il primo dei tre paradossi che lei denuncia. Gli altri due?
«Il secondo è il fatto che siamo stati i primi a mettere la tutela del paesaggio tra i principi della Costituzione senza riuscire però ad evitare che le leggi venissero aggirate ed il suolo drammaticamente offeso. Il terzo paradosso è il fatto che il paesaggio italiano è un vanto storico della nazione, una delle ragioni per le quali l'Italia è dal Cinquecento la meta privilegiata del Grand Tour, del turismo di qualità ma nelle nostre scuole il paesaggio è ignorato. Si parla solo del paesaggio dipinto, mai di quello vero».
Che è una memoria anche, e soprattutto non è una cartolina.
«Appunto. Quando se ne parla si sentono dire frasi molto singolari come se il paesaggio sia una sorta di difesa di tipo estetico. Ora, non si tratta di difenderlo in quanto bello ma in quanto memoria storica. Un paesaggio sul Carso devastato dalla prima guerra mondiale non è bello ma merita di essere ricordato. Perdere la memoria collettiva di un Paese o di una città è esattamente come perdere la memoria individuale per un uomo».
E infatti l'Italia sta facendo del suo meglio per tenere aperte molte ferite. Lei fra l'altro l'ha girata in lungo e in largo tanto da fare una graduatoria del peggio, nella quale peraltro il Friuli Venezia Giulia sembra difendersi meglio.
«Infatti. Non è tra le regioni che escono peggio da questa situazione. Nella classifica della vergogna il primato nazionale della devastazione del paesaggio spetta indubitabilmente alla Liguria. Ma la Calabria la insidia seriamente e forse la supera se si considera che in seguito all'abusivismo edilizio i parametri calabresi appaiono certamente truccati».
Diceva Goethe che in Italia l'architettura è una seconda natura. Sottoscrive questo concetto?
«Non c'è dubbio. Goethe lo dice parlando dell'acquedotto di Spoleto. Io confronto l'Italia con gli Stati Uniti dove il tipico paesaggio da proteggere - quello dei grandi parchi - è la natura allo stato puro. Invece da noi la natura allo stato puro si vede ben poco perché anche nelle foreste, nei boschi, nelle montagne c'è sempre una profonda compenetrazione tra natura e cultura. Il paesaggio italiano per ragioni storiche - essendo un Paese comparativamente piccolo abitato intensissimamente da epoca molto antica - è una compenetrazione intima tra le due cose. Per questo la nostra Costituzione all'art. 9 mette insieme il paesaggio e la tutela del patrimonio storico-artistico della nazione».
Però la politica e le leggi in materia non la assecondano la Costituzione.
«E’ una storia molto intricata che nel libro cerco di spiegare. La natura delle nostre leggi è determinata fortemente da fattori storici: la tutela del paesaggio nasce con una legge firmata da Benedetto Croce nel 1920 poi riproposta da Bottai in forma più organica nel 1939 e infine ripresa dall'attuale codice dei beni culturali. Però nel sistema legislativo di epoca fascista si era operata una scissione sbagliata fra il paesaggio soggetto alla tutela del ministero della pubblica istruzione e l'urbanistica che dipendeva dai lavori pubblici. Quella era un'Italia che si muoveva poco, con una demografia crescente ma senza prosperità sicché sembrava di poter organizzare il territorio in parti separate: un paesaggio che si arresta alle soglie della città ed una città che si esclude al paesaggio, con due regimi autorizzativi completamente diversi».
Invece che cosa è cambiato?
«Con la Costituzione della Repubblica la tutela del paesaggio resta centralizzata allo Stato ma le competenze urbanistiche vengono distribuite alle Regioni. Di tutto ciò non si avvertono gli effetti finché le Regioni non entrano in vigore cioè negli anni Settanta. Da quel momento succede che le legislazioni regionali si differenziano non solo dallo Stato ma fra regione e regione generando una selva di norme contraddittorie. In questo modo si è spezzettata l'unità del paese che la Costituzione proclama. E’ nato un grande labirinto di regole - un fuoco amico io lo chiamo - per cui lo Stato cerca di riappropriarsi di pezzetti di competenze che le Regioni tentano di impedire. Fioccano i ricorsi alla Corte Costituzionale in una situazione di straordinaria complessità nella quale la contraddittorietà fa sì che tutto sia possibile».
E quindi il paesaggio è diventato un affare.
«Proprio così. Anche perché credo che qui ci sia da fare i conti con una mentalità molto arcaica e contadina. Noi ci vantiamo tanto di essere un grande paese industriale mentre abbiamo ancora una memoria della povertà che storicamente ha segnato moltissima parte del Paese; dalle campagne venete a quelle siciliane coltiviamo l'idea arcaicissima secondo cui investire nel mattone è l'unica cosa sicura. In questo modo se qualcuno ha dei soldi cerca di comprare appartamenti finendo col bloccare i capitali. Si è voluto fare il cosiddetto Piano Casa partendo dal presupposto che attraverso l'edilizia riparte l'economia, ma non è così. Sono soldi sottratti alle attività produttive».
I1 che fa saltare tutti gli equilibri...
«Con la scusa meschina che se l'edilizia si ferma si crea disoccupazione, continuiamo a distruggere oliveti e aranceti e dimentichiamo che abbiamo un Paese fragilissimo dove oltre il dieci per cento del territorio è franoso senza fare nulla per contrastare questo fenomeno».
Lei citando Seneca scrive che sa indignarsi solo chi è capace di speranza.
«Chi si indigna non dimostra pessimismo, spera in un mondo migliore e combatte per questo. Al contrario chi non si indigna ha lasciato ogni speranza ed è spettatore passivo della dilagante corruzione pubblica, dei continui tagli alla cultura, all'università, alla ricerca, e dell'abbandono del paesaggio».

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